(rockol.it)
“Parlésia” è una sorta di gergo, un linguaggio che utilizza un lessico comprensibile solo agli “iniziati”, quali sono i musicisti napoletani, che lo usano per comunicare fra loro senza essere capiti da chi non è del mestiere. L’autrice ne racconta le origini, ne spiega l’utilizzo e raccoglie le testimonianze di chi lo pratica (Mauro Di Domenico, James Senese, Enzo Gragnaniello, Rosario Jermano, Lino Vairetti, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Eugenio Bennato, Fausta Vetere, Ernesto Vitolo.).
(fanpage.it)
Se si parla con qualche musicista napoletano oltre i 50 anni, non è difficile imbattersi in parole come bagaria, jammone e jammona, bagone, bane, parole che appartengono a un gergo che veniva usato dai musicisti per non farsi capire al di fuori di una certa cerchia. serviva per difendersi da jammone d’e bbane, da colui che pagava, dove per “jammone” si intende un uomo che ha il potere e i bane sono i soldi. “Parlesia. La lingua segreta della musica napoletana” racconta, anche grazie a un corpo enorme di interviste, in che modo questa lingua si è evoluta, come si è arricchita e in che condizioni versa in questi anni
La parlesia nasce come gergo di piazza e poi diventa un gergo di mestiere, incomprensibile ai non addetti ai lavori. I musicisti erranti, i cosiddetti “posteggiatori” la usavano tra di loro. Chi era fuori dalla loro ‘comunità carbonara’ non riusciva a capire cosa dicessero. Questo gergo viene “legittimato” dai musicisti che dagli anni ’70 in poi hanno inserito nelle canzoni alcune parole più comuni. Diventa lo slang di chi non faceva musica accademica, anche se in una seconda fase, la parlesia viene portata anche nei conservatori dagli studenti che fuori entravano in contatto con essa.
Valeria Sagges: “Conosco la parlesia da 20 anni. L’ho appresa dagli orchestrali quando lavoravo sulle navi e non l’ho più abbandonata. Gravitando nel mondo della musica, l’ho sempre sentita e quindi parlata anche io. Una sera a cena con alcuni amici vennero fuori alcune parole e un po’ di aneddoti. Il giornalista Gino Castaldo che era presente mi ha letteralmente spinta a scrivere questo libro”.
“Ogni lingua è in movimento e così anche i linguaggi, i gerghi. Non avrebbe avuto senso scrivere un libro di aneddoti senza la ricerca linguistica e filologica. Ogni modo di parlare rappresenta un modo di pensare, di vivere e anche di suonare. La visione del mondo cambia, le esperienze cambiano, il mondo stesso si trasforma. Ho cercato di rendere il saggio un racconto divulgativo, fruibile per tutti”.
“Prima di iniziare il lavoro ho telefonato ad alcuni musicisti. I primi che ho chiamato sono stati il chitarrista Mauro Di Domenico, il musicologo Pasquale Scialò, Rosario Jermano, Enzo Gragnaniello, Ernesto Vitolo, Tony Cercola e Fausta Vetere della NCCP. Successivamente ho chiamato gli altri”.
(repubblica.it)
La parlesia è uno dei tanti codici che attraversano Napoli, uno dei tanti modi di guardare e di interpretare la città. Seguirne le parole, l’uso e l’evoluzione significa entrare in una dimensione che consente una vicinanza a quei musicisti che a Napoli e da Napoli hanno rivoluzionato il suono della musica italiana. Si va dal restio a spiegarne temi e significati James Senese a chi come Enzo Gragnaniello ne denuncia l’uso ormai svilito. E poi si va a Tony Esposito e Tullio De Piscopo, agli Osanna e a Eugenio Bennato, Fausta Vetere. Fino a Clementino e Gnut, ultimi depositari del gergo, passando per chi la parlesia la utilizza anche “altrove”: sul palcoscenico dei teatri e si pensa a Marisa Laurito e a Vincenzo Salemme.
“Lingua iniziatica”, la definisce Gino Castaldo nell’introduzione al libro, utilizzata “con l’ironica soddisfazione dell’artista che per una volta si fa imbroglione dopo essere stato a lungo imbrogliato”. Lingua che ha una storia lunga, radici nel gergo dei posteggiatori (i musicisti di strada) che a loro volta saccheggiarono il codice occulto dei magliari, i commercianti di stoffe che da Napoli attraversarono il mondo e nel mondo dovettero imparare a sopravvivere. Lingua che diventa, dopo la seconda guerra mondiale, modalità dei musicisti per “fare gruppo”, prima nel mondo dei club gestiti dagli alleati, poi in quello attraversato da impresari cinici e cattivissimi (i famigerati “baconi”) che non pagano o pagano troppo poco. Lingua che infine restituisce alla musica “una funzione di inclusione”.
(jamtv.it)
Valeria Saggese “Fin da bambina sapevo quale fosse la mia città di nascita, ma ancora di più ero cosciente che definirmi di un luogo e basta era per me troppo limitante. Mia madre è di origine lucana, mio padre ha lavorato per 40 anni a Napoli, da adolescente i miei genitori mi accompagnavano spesso a Roma per le lezioni di danza, città in cui poi mi sono trasferita. Ho studiato in Spagna, in Australia e poi ho scelto Londra come città per farmi le ossa. Salerno negli ultimi anni la vivo molto di più, c’è la famiglia, ma gli amici cari e il lavoro sono ovunque. Napoli c’è stata sempre nei miei giorni, con il suo teatro, con la sua musica, con la rabbia e con gli amori. A casa di mio nonno ascoltavo le canzoni classiche napoletane e con Santa lucia luntana, Munasterio ‘e Santa Chiara, Era de maggio ci sono cresciuta. Sono sempre stata una grande appassionata della lingua napoletana. Addentrarmi nei vicoli di Napoli e nei luoghi più nascosti non è stato difficile, ma una meravigliosa riscoperta”.
“Questo gergo è da considerarsi in una prima fase un gergo di piazza utilizzato dai vagabondi, dagli ambulanti, da chi faceva una vita da lavoratore ambulante, tra questi c’erano persone che vivevano ai margini della società. Nell’800 assume le caratteristiche di un gergo di mestiere, quello dei musicisti erranti, i posteggiatori. La malavita aveva il suo gergo e ha preso la sua strada. Nella seconda metà del ‘900 i musicisti che frequentavano i club americani la impararono e la usavano soprattutto per non farsi intercettare dalle donne e soprattutto da chi doveva pagarli”.
“Negli anni ’80 la parlesia era diventata una moda e iniziò a perdere la sua funzione primaria. Oggi i giovani riprendono qualche parola per conservare la tradizione ma pochi sono quelli che utilizzano qualche termine per non farsi capire. Tony Esposito fu il primo a usare parole del loro gergo carbonaro in Breakfast dell’album Rosso napoletano. Poi arrivò Pino Daniele che fece tanta ricerca musicale e linguistica. Miscelava inglese, parlesia, napoletano, spagnolo. Fu accusato di essere lo sdoganatore del linguaggio segreto. Dobbiamo molto a lui e agli altri artisti che l’hanno utilizzato in musica. Se i musicisti non avessero portato in superficie la parlesia attraverso le canzoni e usandola in famiglia, si sarebbe persa e non avremmo mai conosciuto questo lato di un mondo culturale unico e irripetibile”.
(abbanews.eu)
La parlesia è un gergo dialettale, un linguaggio carbonaro inventato dai musicisti napoletani per poter comunicare fra loro in pubblico, senza farsi capire dai presenti. Valeria Saggese ne ripercorre la storia, ne rimanda l’origine al medioevo, tramandata oralmente e legittimata dalla metà degli anni Sessanta del Novecento e portata in trionfo dai cantautori degli anni Settanta che tanto hanno innovato la canzone italiana, senza mai perdere di vista la tradizione napoletana. Nel suo testo ricco racconta il gergo fino all’attuale evoluzione, attraverso le note delle nuove leve.
(avantionline.it)
È riduttivo dire che questo libro si occupa solo di Parlesia. L’antica lingua sembra essere quasi un pretesto per solcare i mari della musica napoletana. È il filo d’Arianna che la Saggese usa per raggomitolare ricordi, suoi e dei musicisti che incontra. Un libro a metà strada tra il saggio e il romanzo, un documentario scritto con la sensibilità di una donna che guarda a quel neapolitan power in maniera altra. Lei ci fa entrare nella cucina del percussionista Rosario Jermano riuscendoci a farci sentire il sapore del sugo alla genovese che ribolle sui fornelli. Qui, con Lino Vairetti e Paolo Raffone, si racconta dei Batracomiomachia, della Grotta alle Fontanelle e degli inizi con Pino Daniele. Sempre lei ci porta dentro lo studio di Eugenio Bennato al Vomero, in via Aniello Falcone, a farci scoprire la magia di certi luoghi sacri della musica napoletana. Ci porta per mano nel camerino che divideva come ballerina con la grandissima Fausta Vetere, voce immensa della Nuova Compagnia di Canto Popolare, nello spettacolo “La gatta cenerentola”.