Polistrumentista, compositore, produttore discografico, scultore pittore e videomaker, Brian Eno è tutto questo. Ha traghettato le ricerche di John Cage e La monte Young verso il rock, il compagno di strada di Brian Ferry, David Byrne e David Bowie, e il produttore degli U2.
“Essere cattolico in Inghilterra significa appartenere ad una minoranza. Io appartenevo a una famiglia molto devota e ho un forte ricordo della chiesa frequentata da bambino. Ero incantato dalla musica dell’organo, la luce colorata che entrava dalle finestre, la lingua latina che ha un suono bellissimo. Una messa è un’opera d’arte totale”.
“Per me l’arte è come un simulatore, una forma d’esercizio che gli uomini praticano con successo perché hanno il dono dell’immaginazione. I bambini imparano giocando, gli uomini apprendono attraverso l’arte. La creatività richiede allenamento e pratica quotidiana”.
“La musica guarda al vinile e al suo sound antico, il cinema resuscita il bianco e nero, pittori e scultori reinterpretano la Pop art. Da un punto di vista commerciale la vintage mania può anche avere un senso. Intrattenere il pubblico con suoni, immagini e forme che hanno un sapore antico è molto rassicurante, ma senza il coraggio della innovazione l’arte muore”.
“A me non piace fare il produttore che asseconda i gruppi che vogliono replicare sé stessi. Non lavoro per fare felice il fan club. Io spingo tutti verso il cambiamento e le strade inesplorate. Ma li avverto che osare può voler dire perdere una fetta di pubblico. Mi rendo conto che questo è esattamente quello che un gruppo come gli U2 vorrebbe evitare. L’istinto di un artista come Bono è fare salire tutti a bordo della sua nave. Anche il quindicenne che ascolta solo musica dance. Una mediazione fra il mio approccio e il mercato è possibile”.
“Ai tempi delle mie prime composizioni per ambienti le tastiere elettroniche erano strumenti sofisticati al servizio dell’uomo. Adesso schiacciando un paio di tasti creano da sole 45 minuti di musica. Non è un passo avanti, ma indietro. I fattori di novità nella musica dei prossimi anni saranno il jazz rielaborato da musicisti africani e gli intrecci melodici della musica araba”.
“Il termine decadente è normalmente usato per descrivere una cultura che non è ormai più fresca ed innovativa, ma che al contrario si nutre delle fantasie del suo passato. In questo senso ogni cultura è un po’ decadente e quelle nelle quali sono interessato lo sono davvero molto poco”.
“Sono molto interessato alla pittura. Tra tutte le forme d’arte questa ha avuto la maggiore influenza su di me. Passo molto tempo ad osservare i quadri che dipingo ascoltando musica, spesso sono tentato di ritornare alla solitaria arte della pittura”.
“Oggi è molto più facile produrre musica. I Beatles o Jimi Hendrix hanno avuto bisogno di tanti passaggi prima di arrivare alla realizzazione di un disco. Hanno avuto bisogno di un manager, di un’etichetta, di studi di registrazione”.
“La musica pop inglese ha sempre riguardato molto le idee, non è solo intrattenimento o il voler creare una hit di successo. La scuola d’arte è stato un posto dove i giovani potevano dimostrare quanto fossero diversi e nuovi, quali eccitanti idee avessero, e se non volevi un lavoro schifoso in Inghilterra quello che facevi era andare in quelle scuole. Per questo mi iscrissi a una scuola d’arte: non volevo un lavoro”.
“Ho scelto la mia strada quando verso il ’68 venni spinto dall’amico Tom Phillips ad interessarmi più professionalmente ai mezzi elettronici. Ho studiato presso il centro di musica sperimentale dell’Art School, dove ho avuto modo di confondermi e migliorare in un insieme di musicisti dalla provenienza più diversa, dal folk, al popolare, al classico, e il cui unico intento era “creare” prescindendo dalle basi scolastiche che ognuno possedeva. Mi interessava arrivare ad una posizione nella quale mi fosse possibile osservare la musica che mi circondava, frugandole dentro e prendendone quanto mi sembrava più importante. Volevo diventare un “magnete di suoni”.
“Il mio punto di vista sulla storia della musica è che tutte quelle cose che appaiono tangenziali, poco importanti, periferiche, devono diventare mainstream. Questa è la grande forza del rock, anche se oggi è in involuzione, sta cadendo in basso dopo un boom formidabile. É esistito il boom del rock perché la gente alla fine degli anni Sessanta vedeva ancora il nostro mondo, anche la sua parte artistica, come un posto amichevole e sfruttabile. Oggi lo vediamo ostile, lo spazio individuale viene concentrato nell’autodifesa, abbiamo paura di tutto e tutti e le strutture ci fagocitano, e si sfocia nella violenza”.
“Quando studiavo arte da ragazzo, negli anni Sessanta, erano tempi di grandi scoperte musicali, erano appena nati i sintetizzatori e le nuove tecniche di registrazione. Arrivai a collezionare 31 registratori a nastro, quelle nuove possibilità mi eccitavano moltissimo”.
“Un tempo abbiamo creduto che la tecnologia ci avrebbe salvato, ora c’è la possibilità che ci rovini. Da quando abbiamo inventato i social abbiamo diviso le persone. Ma sono gli algoritmi a dividerci. Non che gli algoritmi siano sbagliati a priori. Ma quando l’algoritmo è creato per fare soldi, allora sarà un algoritmo che vuole dividere la gente, inasprire i rapporti, creare frizioni, esasperare le differenze”.
“Non sopporto l’idea di andare in giro con le cuffie. Ti isola. Trovo deludente che la maggior parte della tecnologia dagli anni Ottanta in poi abbia portato all’atomizzazione della società. A separarti dagli altri. Penso che una delle cause del casino in cui ci troviamo sia una società frammentata: siamo sempre più individui e sempre meno comunità. Vorrei scoprire come costruirne di nuove. In realtà Internet lo ha già fatto. Tutto è auto-referenziale e si creano comunità così isolate le une dalle altre da convincersi che l’intero mondo è fatto come lo vedono loro”.
“Amo il film Giulietta degli spiriti di Fellini. Penso che il mood sia definito dalla musica. È stata la prima colonna sonora che ho comprato. La musica per i film è diversa, non deve essere troppo specifica, non deve dipingere tutta la scena, deve lasciare spazio alla storia. Quando ho iniziato a comporla ho capito che tralasciare era la chiave. Non metterci tutto, ma tenere alcune cose ambigue e vaghe. Mi ha portato a fare la musica che volevo”.
“Buona parte della mia musica non è mai stata suonata perché è costruita in studio, esiste solo nei dischi. Non vado molto ai concerti e se lo faccio scelgo quelli piccoli. Non mi interessano i grandi show da migliaia di persone”.