“Ho cominciato a suonare quattordici anni, quando ho lasciato gli studi classici di pianoforte e ho preso a esibirmi lungo la riviera abruzzese con vari complessi, proponendo successi beat, canzoni dei Kinks, dei Troggs. All’epoca ascoltavo anche i dischi dei Cream, degli Who, Rolling Stones, Spencer Davis Group. A diciannove anni mi sono trasferito a a Perugia a studiare medicina. Lì ho conosciuto degli studenti dell’Università per Stranieri che suonavano folk. Suonando il pianoforte e l’organo nei gruppi, andando a Perugia come studente fuorisede non avevo la possibilità di averli con me e allora ho cominciato a strimpellare la chitarra perché era più facile da portare appresso. Le persone che ho conosciuto suonavano principalmente folk scandinavo, americano. Da lì sono arrivato a Dylan”.
“Dopo tre anni mi sono trasferito a Roma. Avevo cominciato ad interessarmi alla musica folk, ai primi cantautori come De Andrè e Guccini. Leggendo i giornali musicali venni a sapere dell’esistenza del Folkstudio. Da una parte l’idea di laurearmi a Roma e non a Perugia, dall’altra l’attrazione per questo locale, nel 1971 sono venuto a fare gli ultimi anni di medicina. Prima ho fatto la gavetta in un localino universitario, il “Camelot Club” che poi è diventato il “Suburra Cabaret” a via dei Capocci, per saggiare le mie capacità di fronte al pubblico. Il repertorio era fatto da una metà di canzoni mie e una metà di cose di Dylan, Jacques Brel, Jean Ferrat, Brassens, Guccini, De André”.
“La prima volta che sono entrato al Folkstudio c’erano sui giornali le pubblicità della loro rassegna “Domenica Giovani”, c’era scritto “palcoscenico aperto”. Andai con quattro amici e Giancarlo Cesaroni mi disse che il palco era aperto per i giovani della scuderia del Folkstudio. Ricordo che c’era Ernesto Bassignano che disse a Cesaroni di farmi suonare perché il repertorio era bello e fui arruolato nei giovani del Folkstudio”.
“Qualche anno dopo, sempre al Folkstudio, ho conosciuto Francesco De Gregori. Suonava le stesse cose che suonavo io oltre alle sue “Cercando un altro Egitto” e “Alice” che era appena uscita. Avevamo una passione comune: Bob Dylan”.
“Nel 1975 ho incontrato Piero Ciampi. Lo conobbi perché veniva in ospedale (Il Santo Spirito di Roma). Era lì per i suoi problemi legati all’alcolismo. Un paio di anni dopo si ruppe un femore e venne nel reparto dove lavoravo. Quando ci siamo conosciuti mi ha odiato perché gli facevo portar via i fiaschi di vino dagli infermieri. Una persona sfortunata, Il periodo del Folkstudio e quello della RCA furono veramente belli”.
“Amo Tom Waits. Avendo fatto con Enrico Ruggeri “Confusi in un playback”, su singolo infilammo nel lato b la sua “Foreign Affair” tradotta da me. Questo mi permise di conoscere Tom Waits ma soprattutto Greg Cohen con cui ho sviluppato subito una forte simpatia. Nel 1988 con mia moglie andai a Milano a vedere Randy Newman che aveva come supporter Victoria Williams accompagnata da Greg. Cenammo e gli dissi che preparavo un album e che mi sarebbe piaciuto collaborare. Da lì abbiamo registrato otto dischi”.
“La canzone d’autore è la testimonianza del tempo e degli avvenimenti che un cantautore vive. Può essere espressa in modo diretto e di cronaca (canzone politica, sociale, di appartenenza) o essere arricchita da una vena poetica, lasciando spazio alla fantasia e alla creatività. Il denominatore comune deve essere la identificabilità del tempo che si testimonia. I nuovi cantautori aprono le porte al jazz, all’hip hop, al rap, al rock, oltrepassando di molto la linea dei tre accordi su una chitarra e di un testo imperdonabilmente autocompiacente”.
“La musica mi ha aiutato moltissimo. Durante i concerti ho una scaletta di 25 pezzi, di cui 15 sono previsti, mentre i restanti vengono improvvisati al momento. I miei musicisti questo già lo sanno: quando comincio con delle note, loro vanno avanti e mi seguono. I miei brani e quelli degli altri hanno su di me un effetto curativo. Ho studiato la musica classica, ho avuto sconfinamenti nel blues e nel rock. Mi piace anche il folk, la canzone d’autore. Sono attratto da ogni forma musicale. Non amo la musica di sottofondo, quella che mettono negli ascensori, nei supermercati”.
“Non scrivo su commissione come un professionista. Non suono quasi mai se non per concerti o registrazioni, o quando vivo dei momenti di intensa ispirazione. A volte non ho reminiscenza di quello che ho fatto in quelle ore in cui sono stato attaccato al piano ma poi mi accorgo che, riascoltando quello che ho registrato, ho provato dei sentimenti importanti”.
“Ci sono canzoni e cantanti che hanno fatto milioni di streaming, qualche anno fa, che oggi ricordano in pochissimi. Quello dei social, di Spotify è un mercato strano, anomalo, fugace, un usa e getta come un po’ tutto ciò che oggi gira intorno alla musica. Fortunatamente c’è ancora una minoranza che vuole sentire le parole, gli arrangiamenti, che vuole ascoltare chi sa suonare e cantare bene e che vuole trovare qualcosa nelle canzoni. La Trap non la capisco. Sono canzoni costruite su una batteria elettronica sempre uguale, pochissimi strumenti elettronici e parole di cui difficilmente comprendo il significato, a volte sembrano comizi piuttosto insulsi o carichi di violenza”.
“Ho cominciato a studiare pianoforte a cinque anni e l’ho studiato per nove anni, dando ogni due anni un esame da privatista fino a quattordici anni. Poi ho sentito le canzoni dei Beatles. Ho lasciato lo studio del pianoforte perché ho iniziato il liceo scientifico. Ho messo su un complessino. Avevo una pianola con a destra i tasti del pianoforte e a sinistra i bottoni della fisarmonica. Il mio primo gruppo si chiamava I Dinosauri. Poi siamo diventati I Puri, e dopo siamo diventati i Gently Beats. Il repertorio era di cover, con qualche canzone originale. Cantavo alcune canzoni che avevo composto e di Bob Dylan. Suonavamo brani dell’Equipe 84, Rokes, Rolling Stones, Beatles, Troggs, Kinks. Nel ’68 sono andato all’Università a Perugia, lì non avevo più il pianoforte e ho cominciato a strimpellare la chitarra. Poi sono venuto a Roma perché sentivo parlare del Folkstudio, della canzone d’autore, della canzone popolare. Prima sono stato sei mesi a cantare con la chitarra in un club vicino a via Urbana. Poi mi sono riaccostato al pianoforte, ho cominciato a scrivere canzoni che ho pensato di proporre al Folkstudio”.
“Il mio disco preferito in quegli anni era Due anni dopo di Francesco Guccini, che avevo comperato nel ’70 a Perugia. Leggevo le riviste musicali dell’epoca come Ciao amici e Big, seguivo le rassegne di musica popolare con Otello Profazio, il Coro di Aggius, il Canzoniere Internazionale, ero attratto dal mondo del folk”.
“Hal Willner è uno dei produttori musicali che apprezzo di più. Ha realizzato Amarcord Nino Rota, un tributo alla musica di Nino Rota con la partecipazione di Debbie Harry, Wynton Marsalis e Bill Frisell, oppure Lost in the Stars: The Music of Kurt Weill con la partecipazione di Sting, Tom Waits e Lou Reed, e ancora Stay Awake un omaggio alla musica dei film di Walt Disney con la partecipazione di Ringo Starr, Sun Ra e Sinéad O’Connor”.
“Non ho mai un progetto preciso. La mia vita è fatta di interessi e passioni, il mio lavoro da medico, la mia famiglia. Non ho contratti che mi fissano una scadenza. Ho il piano in casa, ma lo suono solo quando devo fare un disco o un concerto. Poi mi capita di passargli accanto, mi seggo, sto 4, 5 ore ed inizio a registrare delle cose e prendo appunti e proprio in quelle ore faccio il disco. Butto giù 20, 30 canzoni e tengo quelle che mi piacciono. Quando passo al mastering inizio a mettere insieme delle parole e comincio a cantare frasi che mi vengono sul momento in base alle sensazioni che mi danno i brani e li registro insieme ad altri musicisti”.
“Al Folk Studio ho incontrato gente importante. Con Francesco De Gregori è nata una grande amicizia. Ad un certo punto della mia carriera avevo deciso di non fare più dischi. Quando Francesco ascoltò “Piccola luce” ed altre canzoni mi disse di ritornare al Folk. Antonello Venditti fu il primo che mi accompagnò”.