(rockit.it)
Elisa De Munari: “L’idea è nata perché ho sempre trovato poco che riguardasse le prime donne del blues. Conoscevo pezzi di artiste che mi piacevano tantissimo, che però non erano mai citate nei libri dedicati al blues. Le artiste degli anni ’20 vengono dipinte solo come un fenomeno commerciale manovrato dai bianchi, ma leggendo i loro testi si capisce che dietro c’è molto di più. Nei libri sul blues, si sottolinea spesso come questa musica non abbia velleità politiche e come il bluesman chiami in causa le ingiustizie della società americana senza intenti di accusa o denuncia. Io credo invece che le artiste afroamericane abbiano dimostrato quanto il blues potesse essere politico, perché una donna che canta e denuncia pubblicamente gli abusi sessuali subiti, la propria omosessualità o il bisogno di controllare il proprio corpo si espone in modo radicale. E spinge una comunità a prendere coscienza di sé stessa”.
La violenza, l’omosessualità, il sesso, Dio, la libertà, la droga, la morte, la rinascita. Diviso in undici capitoli che spaziano fra le storie di Bertha Chippie Hill e Lucille Bogan, di Alberta Hunter, Lottie Kimbrough, Bessie Smith e Sippie Wallace, il volume include i contributi di diverse musiciste italiane, da Folake Oladun a Stefania Pedretti, Maria Antonietta, Sara Ardizzoni, Caterina Palazzi e molte altre.
“Ogni capitolo prende il via da una canzone e, attraverso il suo testo, racconta la storia della comunità afroamericana e quella dell’artista che la cantava. Da lì, la parola passa ad una musicista contemporanea, che tratta quello stesso argomento e la propria esperienza. Molte vengono dal punk o dalla sperimentazione e hanno poco o nulla a che fare con il blues. Ma hanno tutte in comune la pervicacia nel procedere in direzione ostinata e contraria. Proprio come le artiste blues degli anni venti”.
“Il titolo del libro omaggia Ma Rainey, una delle prime ad esporsi in modo radicale. In quel testo, elenca tutti i blues che la attanagliano. Il libro fa lo stesso: dà voce a quei blues”.
Tra storie raccolte nel libro, quella di Geeshie Wiley: “I suoi pezzi sanno di fango, palude, vita vissuta, polvere”. E Victoria Spivey: “Victoria Spivey fu un’antesignana in fatto di gotico sudista: canzoni decadenti, macabre, che hanno preceduto il cammino di artisti come PJ Harvey e Nick Cave”. “Elizabeth Cotten: la storia di un riscatto, arrivato in parte e solo in età avanzata. Un altro nome fondamentale ma mai citato, soprattutto nei manuali chitarristici”.
(blogfoolk.com)
Il titolo proviene da una canzone della georgiana Ma’ Rainey, soprannominata The Mother of the Blues o the Songbird of the South. Ciascun capitolo del volume è scandito dal titolo di una canzone il cui testo è contestualizzato con la condizione delle comunità afroamericane e con la vicenda dell’artista che lo cantava. Sulla scena ci sono undici donne, cantanti e musiciste, che sfidarono le restrizioni sociali e quelle di genere. Donne che si ritrovano a vivere una realtà sociale molto dura, che hanno vissuto sulla loro pelle il razzismo e il lascito della schiavitù, perché figlie o nipoti di schiavi. Artiste politiche che cantando infrangevano l’interdetto, denunciando pubblicamente gli abusi sessuali subiti, dichiarando la propria omosessualità o affermando il bisogno di controllare il proprio corpo, spingendo altre donne, se non la stessa comunità, a prenderne coscienza. Chi erano queste indomite e indipendenti donne del Sud, interpreti e autrici di rilievo del blues degli anni ’20: Bertha Chippie Hill, Ma’ Rainey, Lucille Bogan, Alberta Hunter, Lottie Kimbrough, Bessie Smith, Sippie Wallace, Memphis Minnie, Victoria Spivey, Geeshie Wiley e la grande interprete del Piedmont blues Elizabeth Cotten.
(ilclubdellibro.it)
Questo saggio si concentra sulla storia e sull’importanza che hanno avuto le donne nel misterioso mondo blues. Nei racconti che vengono descritti nel libro ci sono le biografie di donne coraggiose, indomite, che hanno avuto la forza di affrontare un mondo, una società che a loro dava tanta sofferenza, violenza e soprusi. Sofferenze che venivano “vomitate” in qualsiasi occasione loro avessero in un atto di grandissima resilienza, determinando la necessità di esporle ad un pubblico borghese fino a quel momento “ignorante” e pregiudizievole, che le riteneva “poco adatte” alla collettività. Il blues, diventa per loro un’azione sovversiva, diventa politica, diventa un modo “innocuo” per far conoscere a tutti i loro problemi quotidiani, svolgendo sempre più il ruolo di promotrici e sostenitrici di tutti coloro non avessero la forza per reagire e combattere e che per paura rimanevano zitti.
(radiocoop.it)
Elisa De Munari analizza il significato della musica blues, attualizzandolo con le esperienze personali di blues woman. Raccontando le difficoltà di essere donna in un ambiente che rimane spesso pesantemente maschilista. Il libro, attraverso alcune canzoni di personaggi iconici, ci porta nelle nicchie più nascoste e profonde del blues primordiale declinato al femminile, nel disperato affrancamento da razzismo, maschilismo, oppressione. Una lotta durissima, aspra, spesso persa ma che ha marchiato a fuoco il concetto di autodeterminazione.
(macalleblues.it)
Le donne del blues di cui parla Elisa De Munari, vissute agli albori del 900, erano donne che avevano chiarito, con orgoglio e non poche difficoltà data l’epoca, da che parte stavano. Erano donne che parlavano e cantavano di violenza, abusi, droga. Narravano anche di desiderio e di sesso.
(rootshighway.it)
Le 11 artiste raccontate in Countin’ The Blues
Bertha “Chippie” Hill (1905 – 1950) è nota per il brano Trouble in Mind, inciso nel 1926 con l’accompagnamento della tromba di Louis Armstrong, e divenuto più tardi uno standard nelle versioni di successo di Dinah Washington e Nina Simone. Morì a 45 anni per un incidente stradale, molto probabilmente perché abbandonata morente sulla strada in quanto di colore.
Ma Rainey, nome d’arte di Gertrude Pridgett (1886 – 1939), fu una delle prime donne ad incidere brani blues. Nota per il suo stile aggressivo (“The Assassinator of Blues” la chiamarono) e le sue pose sconce e provocatorie sul palco, si esibiva spesso col marito, ma parlò d’amore per la prima volta non con il tono della brava moglie sottomessa, ma con l’orgoglio della donna libera di decidere del proprio corpo. Compreso anche l’amore saffico, provato anche con la sua pupilla Bessie Smith, tanto che la sua Prove It on Me Blues parla per la prima volta apertamente di un amore tra donne.
Lucille Bogan (1897 – 1948) incise anche come Bessie Jackson. La sua rivoluzione avvenne attraverso il tema della liberalizzazione sessuale e la scoperta del piacere femminile, e è ricordata per i suoi testi al limite della censura.
Alberta Hunter (1895 – 1984). Nota soprattutto per il brano Downhearted Blues, divenuto anche uno standard per Ella Fitzgerald. Il brano rivendica il proprio diritto ad essere amata da un uomo che non sia violento perché frustrato dallo sfruttamento, e traccia un primo interessante parallelo tra la condizione della donna e quello degli schiavi neri.
Lottie Kimbrough Beaman. La sua I’m Going Away era un blues che raccontava di una donna che si fa coraggio e lascia il marito violento che abusa di lei, salvo però poi perdonarlo nel finale.
Bessie Smith (1894 – 1937). La più celebre delle “donne blues” deve la sua morte al fatto che l’ambulanza che la soccorse dopo un incidente stradale non poté portarla al più vicino ospedale perché riservato solo ai bianchi. La sua tomba rimase senza nome per anni, finché Janis Joplin nel 1970 pagò di tasca sua per una lapide. De Munari: “Bessie aveva capito che tramite il blues, che era fatto tutto di tensione umana e sovraumana, di sacro e profano, poteva trasmettere il suo pensiero e renderlo universale. Con lei nacque una nuova estetica: l’artista divenne la canzone stessa. Bessie non interpretava le parole, le viveva in prima persona”.
Sippie Wallace (nata Beulah Belle Thomas, 1898 – 1986). Il suo brano Adam and Eve Had The Blues espresse tutta la contraddizione del fatto che il fallimento del suo matrimonio per il suo rivendicare il diritto alla sua identità e libertà di donna, cozzasse contro il suo credo religioso.
Memphis Minnie, vero nome Lizzie Douglas (1897 – 1973) è considerata la prima donna a passare al blues elettrico.
Elizabeth “Libba” Cotten (1893 –1987). Viene sempre dimenticata negli elenchi dei chitarristi più innovativi del secolo, nonostante a lei si debba anche la tecnica del fingerpicking rielaborata per il blues (il famoso “Cotten Picking”).
Victoria Regina Spivey (1906 – 1976). Considerata una delle più influenti blues-singer del secolo scorso, eppure pochissimo celebrata per via dei suoi pochi peli sulla lingua nel parlare di sesso, droga e crimini vari, per anni si esibì nei bordelli. E’ considerata una sorta di punk-dark ante-litteram,.
Geeshie Wiley, nome d’arte di Lillie Mae Boone (1908 – 1950). Skinny Legs Blues, brano intriso di morte e dolore, è una delle prime testimonianze del dolore di una moglie alla partenza del marito per la guerra (Prima Guerra Mondiale), e sarà il modello per tantissimi brani sul tema usciti durante la Guerra d