“A 7 anni ascoltavo molto la radio. Mi piacevano il jazz, la classica e la lirica. Poi mi sono avvicinato al folk di Pete Seeger e Woody Guthrie e al folk-blues di Big Bill Broonzy, Sonny Terry & Brownie McGee. A 14 anni mi sono innamorato del rock & roll, di Elvis Presley, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis”.
“I bluesmen comunicano emozioni sincere, raccontano storie vere, la loro musica viene dal cuore. Per me è sempre stato il sound più diretto, efficace, emozionante. Sono diventato uno studioso di blues e gospel per comprendere la radici del rock & roll. Proseguendo nella mia ricerca sono arrivato alla musica tradizionale dei Monti Appalachi, i primi esempi di country music, il bluegrass. Queste musiche hanno molti legami con la musica nera”.
“La scena blues londinese degli anni 60 ruotava intorno ad Alexis Korner, John Mayall, Graham Bond, Rolling Stones. Eravamo tutti giovani. Erano pochi i club dove poter suonare, ma era più facile farsi conoscere. Il pubblico era affamato di musica live. Ricordo che non mi interessava registrare dischi, apparire in tv, volevo solo suonare”.
“Ho fatto parte di band leggendarie, ma oggi sarebbe molto difficile per me far parte di un gruppo. Sono abituato ad essere un leader. Durante la mia carriera ho cambiato spesso direzione musicale. Questo ha significato libertà assoluta nel prendere le decisioni. Mi è piaciuto suonare nei Cream. Quella con i Derek & The Dominos è stata un’esperienza fantastica. Indimenticabili sono gli anni vissuti con i musicisti di Tulsa, nell’Oklahoma:il bassista Carl Radle, il batterista Jamie Oldaker, il tastierista Dick Sims. Poi c’è stato il periodo con il bassista Nathan East e il batterista Steve Ferrone”.
“I Cream si sciolsero a causa degli attriti tra Jack Bruce e Ginger Baker. Io ne ho approfittato per intraprendere nuove strade, suonare con Robbie Robertson & The Band, Steve Winwood, i Blid Faith. In una band capita spesso che le personalità dei musicisti cambiano, cambiano i rapporti, e la musica finisce per diventare la cosa meno importante”.
“Ho avuto esperienze con molte droghe. Alcol e droghe falsificano la realtà. Oggi sono solo interessato alla realtà. Comunque, sono sempre stato predisposto ad avere qualche dipendenza fisica. Da bambino è successo con lo zucchero e il cioccolato”.
“Uno degli incontri più importanti della mia vita è avvenuto nel 1966, a New York, in un club del Greenwich Village, dove suonava B.B. King. Mi ha inviato sul palco per una jam session, e da allora siamo diventati molto amici”.
“Da noi, come in tutte le famiglie inglesi degli anni Cinquanta, si ascoltava la radio durante il pranzo della domenica. Anche il sabato mattina, con mio zio Mack, ascoltavamo alcuni programmi di musica jazz e swing, Benny Goodman, Glenn Miller, Stan Kenton, Harry James, i fratelli Dorsey , Fats Waller, Louis Armstrong, Stan Kenton. In seguito ho cominciato a comprare dischi in qualche negozio che importava musica dagli Stati Uniti, il rock and roll di Elvis Presley, Chuck Berry, Little Richard, Bo Diddley. Dietro di loro c’erano i vari John Lee Hooker, Big Bill Broonzy, Robert Johnson, Son House, Charley Patton, una tradizione che affondava le sue radici nel Gospel, gli Spiritual, le Chain-gang, i canti degli schiavi. Il mio è stato un percorso a ritroso che ha smosso qualcosa di inspiegabile dentro di me. Mio zio Mack era un armonicista, un gran bevitore, molto eccentrico e si interessava a tutto: scienze, filosofia, letteratura. Mi ha insegnato ad ascoltare la musica, cosa cercare in essa e sentirla dentro. E’ stato fondamentale per la mia formazione”.
“A tredici anni mi sentivo con le spalle al muro e il blues era il miglior modo per sopravvivere con dignità, coraggio e orgoglio. Mi affascinava il fatto che un blues man era solo, libero da ogni compromesso, con la sua chitarra contro il mondo. Un individuo che non aveva altre alternative se non quella di cantare e suonare per alleviare le sue malinconie. Mi identificavo in quell’immagine fin da ragazzino. C’era qualcosa di magico e mistico che mi attraeva. Ascoltando Big Bill Broonzy ho capito come si era evoluta la musica”.
“Ho imparato a suonare la chitarra ascoltando Jimmy Reed, il boogie, tantissimo blues, Robert Johnson , grandi canzoni americane , il rock & roll, il jazz , Glenn Miller. All’epoca non avrei mai pensato che sarei diventato una rockstar”.
“Dopo aver suonato in alcune band ai tempi del liceo, sono entrato a far parte degli Yardbirds. Ho bellissimi ricordi di quegli anni. Proponevano brani di Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Billy Boy Arnold. All’inizio avevo paura di perdere la mia libertà facendo parte di una band, ma ho accettato ugualmente, sentivo che sarebbe stato divertente. Vivere fuori casa mi avrebbe permesso di crescere. Non ci sono limiti in quello che puoi fare quando sei libero dai vincoli familiari. Avevo 17 anni ed era troppo forte la tentazione”.
“Per me era fondamentale mostrare di essere un musicista professionista, una vera ossessione. Mi sono provlamato paladino del blues nel mio Paese, sentivo che mi era stato affidato un compito. Non rivolgevo la parola a chi non aveva mai ascoltato Robert Johnson. Il taglio dei capelli alla Beatles, le divise da indossare, sponsor, il pop, isterie generali… mi sono sentito completamente fuori da queste cose che portavano successo e fama. Sentivo che c’era qualcosa che non andava in tutto questo. Ero convinto di essere la sola persona che sapeva cosa era giusto o sbagliato e che gli altri volevano solo usarmi per far soldi. Il mio comportamento era un misto di arroganza, rabbia e frustrazione. Sono scappato improvvisamente dagli Yardbidrs senza lasciare traccia. Sono tornato a casa, a Ripley, e dopo alcuni giorni mi sono trasferito in un appartamento a Oxford con un vecchio amico, Ben Palmer, anche lui musicista blues, che era fuggito dal music business e faceva il falegname. Mi ha insegnato un sacco di cose sulla vita, sulla musica, mi ha fatto leggere molti libri. Sono rimasto con lui un mese, ho conosciuto un sacco di gente interessante. Un giorno poi John Mayall mi ha chiamato per far parte della sua band e ho cominciato un nuovo capitolo”.
“Avevo in programma un paio di concerti a Milano. Il mio manager si è presentato con uno schianto di donna. Era di Verona e si chiamava Lory Del Santo. Era potente, disinvolta e seducente. Tra noi c’è stata un’energia fortissima, di quelle che si scatenano quando si incontra una persona per la prima volta. La bella facciata della nostra relazione si sgretolata quando ci siamo trasferiti a Roma. Ho scoperto un suo album fotografico. Era pieno di foto di lei con uomini famosi, campioni di calcio, attori, politici, musicisti e chiunque altro avesse mai raggiunto la notorietà. Ho notato che in ogni fotografia lei aveva la stessa identica posa, un abbozzo di sorriso che non era per niente un sorriso. Mi sono sentito come se qualcuno mi avesse tirato un calcio nello stomaco. Sono rimasto di gesso”.