“La letteratura ha stravolto la mia anima quando ero ragazzo. Leggevo i classici dell’horror come il grande Edgar Allan Poe. Mio papà (il produttore Salvatore Argento) apparteneva a un ambiente professionale fortemente ancorato al reale, e così anche mia madre Elda Luxardo, fotografa di moda. Entrambi non riuscivano a concepire come io potessi essere attratto da questa letteratura immaginifica, cupa, oscura. Andavo nei cineclub a vedere vecchi film di tutti i tipi. Ho amato molto il cinema muto, in particolare La corazzata Potëmkin”.
“Da sempre sono stato portato a investigare il lato oscuro della psiche umana, il filosofo Heidegger lo chiamava “la macchia nera”. Io ho un dialogo molto forte con la macchia nera, faccio pensieri allucinati e spesso ignobili. Navigando in questi mari orribili e pericolosi, talvolta mi scopro spaventato. Non oppongo resistenza a questo buio, mi lascio andare ai miei deliri. Quando ho fatto “L’uccello dalle piume di cristallo”, avevo meno allenamento a uscire dal dialogo con la mia macchia nera. Poi mi sono allenato a convivere con la macchia nera e mi sono abituato a dialogarci”.
“Ho raccontato le storie che volevo raccontare, ho seguito l’istinto. Non sono pentito di alcuna storia che ho raccontato. Non posso indicare un’opera di cui sono particolarmente fiero rispetto a tutte le altre. Ho fatto un sacco di film, ed in ciascuno di essi c’è una storia, un’idea che ho voluto raccontare”.
“I mie film cui sono più affezionato sono: Suspiria, Profondo Rosso, Opera. Sono stati complessi. hanno richiesto molta dedizione. Anche il primo film, L’uccello dalle piume di cristallo, nel quale ho messo molto me stesso. E poi Inferno, perché strano, simbolico, sui misteri, gli enigmi, fa parte della trilogia delle tre madri”.
“Io ho fatto moltissimi film di generi diversi. Ho fatto più thriller che horror. Di horror veri e propri ne ho fatti pochissimi”.
“La psicanalisi è entrata nella vita di tutti. Dalla letteratura alla pittura, l’architettura, nel cinema. Basta pensare alla cinematografia di Alfred Hitchcock e come sono i suoi film impregnati di psicanalisi. Freud quando ha scoperto la sessualità e il subconscio è come se avesse scoperto l’essenza vitale dell’essere umano. Chi fa cinema deve rifarsi a lui. Senza la sua psicologia avremmo dei film vuoti, falsi, ridicoli”.
“Ho conosciuto moltissimi autori che nella mia mente si sono stratificati in differenti suggestioni che ho rimesso nel mio cinema. Penso all’espressionismo tedesco, a quello danese. Penso a registi come Ingmar Bergman o Orson Wells”.
“Le paure che racconto nei miei film sono paure del profondo, che la parte oscura di noi stessi. Raccontando le mie profondità vado ad attingere alle profondità di tutti. I miei film hanno successo in tutto il mondo perché le storie raccontate non si sa bene come accadono, dove quando e perché”.
“Il primo horror l’ho visto da bambino, “Il fantasma dell’opera” nella versione diretta da Lubin, con Claude Rains. M’impressionò molto. Mi fece capire che c’era qualcosa oltre gli argomenti che trattavo a scuola, oltre quello che mi raccontavano i miei genitori, che ci dicevamo fra amici. C’era l’immaginario, l’inquietante. Da allora cominciai a studiare, iniziai la mia indagine nel mondo dell’incubo, dell’inconoscibile, dell’impossibile”.
“Ho cominciato a fare film per relazionarmi con gli altri, per avere l’amore di coloro che vengono a vedere i miei film. Consegno loro delle emozioni che li scuotono, li rendono più fragili, interessati alle mie vicende”.
“La solitudine è stata la mia maestra di vita. Quando scrivevo i miei film prendevo una stanza in un albergo. Ho girato quasi tutti gli hotel di Roma. Alle otto precise entravo nella mia stanza, chiudevo la porta, mi mettevo seduto sulla poltrona e aspettavo le idee, che pian piano arrivavano, e le segnavo. “Profondo rosso” l’ho scritto in una villetta vicino a Mentana, sulla Nomentana. Era abbandonata, non c’era neanche la luce. La mattina arrivavo, lavoravo sul film, potevo restare fino a che non scendeva il sole. Mi mettevo paura da solo. Qualche volta mio padre, che era anche il mio produttore, veniva a trovarmi all’ora di pranzo, mangiavamo in una bettola lì vicino, poi se ne andava e io continuavo fino alle sette. Era di questi tempi. Mia figlia Fiore stava a Sabaudia al mare con la baby sitter e la domenica andavo a trovarla. È così che è venuto fuori il film, in tre settimane. Solitudine completa. Poi tornavo a casa, ma non c’era nessuno nemmeno lì. Era una scusa. La ripetizione di un rito: andare in un posto isolato, che diventava il luogo dei miei sogni”.
“Mia mamma, Elda Luxardo, era una famosa fotografa brasiliana. Fotografava le dive, ritratti femminili. Io andavo alle medie vicino al suo studio. Alle quattro andavo da lei e poi tornavamo a casa insieme. Nell’attesa mi mettevano in un camerino dove si cambiavano gli attori. Non davo fastidio e potevo fare i compiti. Intanto vedevo queste attrici che si truccavano, vestivano e svestivano. Ho visto mia mamma che metteva le luci su queste attrici per togliere difetti e far risaltare certe parti del corpo. Quando poi ho iniziato a fare cinema mi sono trovato molto a mio agio nel trattare le donne. Quando faccio i miei film se c’è una donna in scena sono felice. Quando lavoro con mia figlia Asia sono molto contento, è una brava attrice e una bella donna che posso giostrare come voglio. Gli uomini sono più spigolosi”.
“La musica è una delle mie passioni. Andare ai concerti, sentire musica. Nei film il silenzio va alternato con il rumore e gli attacchi musicali”.
“La sindrome di Stendhal l’ho abbiamo girato in parte negli Uffizi. Quando andava via l’ultimo visitatore entravamo noi. Spegnevano tutte le luci, era buio. Io, mentre gli altri preparavano la scena, vagavo con una torcia per scegliere nuove location. Ad un certo punto è iniziata a venirmi una gran paura, vedevo questi faccioni, le statue, teste tagliate, li vedevo vivi, che uscivano dai quadri e mi venivano incontro”.